In occasione della quarta edizione del Festival del Nerd abbiamo intervistato Luca Scornaienchi per conoscere meglio i dettagli sulla sua carriera, che passa attraverso la realizzazione di graphic novel ed eventi legati al mondo del fumetto.
-Alcune delle tue opere sono senza parole. Come si legge un’opera silenziosa?
La si legge attraverso le immagini. Quando ho realizzato i tre volumi senza parole (Bye bye jazz, La poesia uccide e Alice non sorride), i miei amici scherzavano dicendo: “Ti sei sprecato a scrivere un libro senza parole”, anche se in realtà è un lavoro molto più complesso perché le parole aiutano a comunicare alcune cose, mentre quando non ci sono i testi serve un lavoro meticoloso da parte del disegnatore, che deve far capire alcune situazioni al lettore.
Ho fatto questa scelta perché quella verso i film e i cartoni animati muti è una mia vecchia passione, quindi ho voluto sperimentare questa tecnica anche nelle mie opere.
-Credi davvero che la poesia possa uccidere?
“La poesia uccide” era un’opera chiaramente ironica verso un mondo un po’ troppo radical chic, che dà all’arte un’importanza eccessiva. Io lavoro nel mondo della cultura, quindi ovviamente adoro l’arte e provo il massimo rispetto verso chi produce in questo ambito, però ammetto che esistono situazioni un po’ eccessive in cui si dà troppo peso ad alcune cose ed è per questo che ho deciso di prendere in giro questo mondo, dicendo: “Guardate un po’ che cosa c’è attorno”.
Trovo divertente quando le persone piangono davanti a un quadro o non dormono per una poesia in particolare; le emozioni sono belle, ma dovremmo ridimensionare un po’ questa cosa.
Ho realizzato quest’opera anche perché molti artisti hanno davvero qualcosa da dire, ma allo stesso tempo siamo circondati da persone che non hanno nulla da dire, ma sono alla ricerca di un ruolo o di una posizione sociale attraverso l’arte.
-Hai mai trovato difficoltà nell’affrontare un argomento?
Quando ho iniziato a occuparmi di graphic journalism.
Sono sempre stato un grande appassionato di fumetti, ma ho iniziato a realizzarli per gioco, perché sono sempre stato un organizzatore di eventi. Quando ho iniziato a organizzare eventi dedicati al fumetto, abbiamo deciso con Alessandro Rak e Andrea Scoppetta di fare “Bye bye jazz”, che ha avuto molto successo, soprattutto grazie alla bravura dei due disegnatori, infatti, a distanza di dieci anni da quel fumetto, Alessandro Rak ha vinto il David di Donatello per “Gatta Cenerentola”.
Chiaramente sono stati loro a trascinare me in questo tipo di prodotto, ma dopo ha iniziato a piacermi il fumetto come genere espressivo perché è immediato, semplice e anche molto facile da portare in giro, perché quando mi invitano a una fiera o a un festival non ho bisogno di portare grandi cose, mi basta portare un mio libro e raccontare la mia esperienza.
Dopo questa prima esperienza artistica e giocosa, la Round Robin, che in quel periodo collaborava con l’associazione daSud (che si occupa di lotta alle mafie) mi ha proposto di realizzare un’opera per la collana Libeccio, dedicata alle vittime della mafia. Ovviamente ho avuto molta difficoltà all’inizio, perché da calabrese ero convinto di sapere tutto sulla ‘ndrangheta, ma in realtà non sapevo assolutamente nulla, quindi mi sono documentato per un anno e la mia libreria era diventata come quella di Saviano, in cui ci sono solo libri sulla mafia.
Un’altra difficoltà è stata lo scrupolo, perché quando si racconta una storia inventata si fanno i conti con dettagli tecnici come la scenografia e la narrazione, mentre nel caso del graphic journalism c’è di mezzo una vittima reale con una famiglia e in qualche modo va restituito il ritratto di una persona che non c’è più cercando di rispettare quello che è stata ed è un’operazione abbastanza complicata.
Questo primo esperimento di contatto con la realtà mi ha mandato in crisi e ho cercato di superarlo nel migliore dei modi. Ho dovuto sudare parecchio!
-In che misura l’arte può essere d’aiuto nella sensibilizzazione su tematiche importanti come, appunto, la mafia?
Come diceva Giancarlo Siani, credo che l’importante sia parlarne. Noi giornalisti abbiamo il dovere di raccontare come stanno le cose affinché la gente possa sapere. Non credo in un potere sovrannaturale dell’arte e non credo che un’opera possa cambiare il destino dell’umanità, ma sicuramente una buona informazione può fare molto, quantomeno dall’altra parte si ha la possibilità di decidere.
Bisogna raccontare delle storie. La collana Libeccio, in cui è inserito il libro su Lollò Cartisano, è nata proprio con questo obiettivo. Siamo stati abituati a una narrazione delle mafie dal punto di vista del mafioso, che nelle grandi produzioni cinematografiche (soprattutto americane) viene rappresentato come una persona bellissima, una persona con stile, come l’attore che la interpreta. In realtà non è così, perché i mafiosi sono persone brutte, che non sanno parlare e che non si vestono bene come Johnny Depp nei suoi film. Esistono delle differenze sostanziali e perciò è nata l’esigenza di creare un nuovo immaginario in cui si mette a risalto la bellezza di personaggi come Peppino Impastato, Giancarlo Siani e Lollò Cartisano.
In qualche modo l’arte può aiutare a ricordare delle storie che altrimenti verrebbero dimenticate, ad esempio la storia di Lollò Cartisano, che è molto interessante nella sua drammaticità, ma in Calabria ci sono stati tantissimi sequestri. Nicola Gratteri, il Procuratore di Catanzaro, ha calcolato che la ‘ndrangheta ha accumulato un patrimonio di ottocento miliardi di lire attraverso i sequestri e poi li ha reinvestiti nella droga e in seguito nelle attività commerciali illegali.
Siamo cresciuti con i nomi dei grandi sequestri, come quelli di Paul Getty e Cesare Casella, come se ci fossero sequestri di serie A e sequestri di serie B, quindi alcune storie le conosciamo, mentre altre, come quella di Lollò Cartisano, sono definitivamente scomparse dall’immaginario collettivo o non ci sono mai arrivate perché sono le storie di semplici cittadini che non fanno notizia, ma che comunque si sono opposti al potere della ‘ndrangheta e la ‘ndrangheta rispondeva uccidendoli, per mandare un messaggio di potere al quale nessuno si doveva opporre.
Bisogna raccontare determinate storie, ma soprattutto bisogna restituire l’identità della persona che non c’è più. Nel graphic journalism vengono inserite determinate illustrazioni che vanno a corredo con gli articoli e per questo lo ritengo abbastanza debole, perché un’opera, secondo me, deve restituire la memoria di una persona senza annullarne l’identità. È un po’ come quando si dice che durante la Seconda Guerra Mondiale sono stati uccisi uno, due o tre milioni di ebrei. Non è il numero a fare la differenza, quello che conta è l’identità di quelle persone, perché restituendo quell’identità si restituisce una dignità e anche una memoria.
-A proposito di arte, credi che in Italia ci siano degli ostacoli da superare?
Secondo me oggi c’è un grande entusiasmo, soprattutto nel campo del fumetto. C’è un fiorire di fiere, festival, fumetterie e case editrici, anche se siamo ancora molto distanti dai francesi, che sono i grandi genitori del fumetto. Perciò c’è ancora molto da fare, però rispetto agli anni passati c’è un gran fermento. Ovviamente sarà il tempo a decidere cosa resterà e cosa no, come è accaduto nella storia dell’arte, del cinema, della musica, ma intanto dobbiamo solo cercare di andare avanti e di migliorarci per poi aspettare e capire che cosa accadrà.
-Se tu fossi un supereroe, quale superpotere avresti?
Non potrei mai essere un supereroe perché non ho nulla di supereroico, anzi ho mille fobie, viaggio solo in treno, non prendo l’aereo, sono ipocondriaco… insomma, non riesco a immaginarmi come un supereroe, mi sento più Paperino!